Berlino, giugno 1983

di Gabriele Giunchi

Fine maggio 1983. Gli Occhi Dolci sono ormai conosciuti in tutta Italia.

Il “Pataccone” è adottato ovunque come soluzione alla riduzione del traffico automobilistico che avvelena le città e come stimolo agli incontri, alle conoscenze e alle riconoscenze.

Al Convegno di fondazione della Lega Ambiente, tenutosi a Milano, conquistiamo le prime pagine di tutti i giornali con i nostri interventi a più voci: incontenibili e seducenti…Oltre le battaglie sul nucleare, oltre la difesa dell’ambiente, oltre le carote macrobiotiche, bisogna imparare a lottare per la felicità…oggi, nel mondo che ci è capitato.

Accade così che i Grunen  (potente movimento dei Verdi tedeschi) si incuriosiscano di noi e ci invitino a Berlino. Bene. Partiamo.

Sette “Occhi Dolci”, ognuno con sette grammi di hashish, su un pulmino blu, noleggiato. Siamo allegri: staremo in vacanza una settimana.

Brennero, casello dell’autostrada. “Chi è Gabriele Giunchi? La sua carta d’identità è scaduta”. Merda. Proviamo a passare dalla Strada Statale, mescoliamo i documenti… “C’è un documento doppio, perciò ne manca uno”. Merda.

Proviamo dalla ferrovia. La Guardia di Finanza mi fa passare. Gli austriaci no. Torno indietro e non trovo più nessuno. In compenso mi fermano le guardie grigioverdi e mi portano in ufficio. Sono tutti là i miei amichetti. Sul tavolo sei pacchettini incelofanati. Poco dopo entra un’altra guardia con la mia “dose”: l’avevo gettata sui binari prima del fermo. Ci siamo tutti: sette per sette.

Telefoniamo agli amici di Bolzano: Alex ed Edi. Ci procurano subito un avvocato. Intanto facciamo conoscenza con gli agenti che ci tengono in custodia.  La Guardia di Finanza si fa fotografare con noi e l’atmosfera è tranquilla. Unico mastino, il maresciallo che perquisisce il pulmino e ci gira attorno con un cane lupo svogliato. Poco dopo torna con un grosso involucro e la faccia raggiante! Fregati!

No! Fregato lui: dentro c’è un sapone da bucato.

Restiamo lì fino al tardo pomeriggio. Poi siamo rilasciati: Possesso per uso personale. Però le guardie si tengono tutto e fanno il verbale.

A questo punto, io torno a Forlì per rifare la Carta d’Identità, gli altri proseguono per Berlino.

La fortuna per me da ora si coniuga col tempo. Un azzardo. Arrivo a casa alle 7 del mattino, un po’ assonnato. Dice mamma: “da dove vieni?” Dal Brennero. “E dove vai?” Al Brennero. Ah!

Alle 8.30 vado all’Ufficio Anagrafe: ci lavora il fratello di uno zio. “Torna tra tre ore con le foto tessera necessarie”, mi dice. OK, intanto vado in un’agenzia di viaggi: c’è un treno, nel primo pomeriggio, che parte da Rimini e arriva direttamente a Berlino alle 6 del mattino successivo. Compro il biglietto, faccio in modo di avvisare gli amici oltrecortina. Risaluto la mamma e riparto.

Incontro di nuovo la Guardia di Finanza, sonnacchiosa e svogliata, gli austriaci, freddi ed efficienti, poi i tedeschi dell’Est, cupi e tristi. Una anziana tedesca mi offre una mela. Non riesco a dormire dall’emozione.

Arrivo. Berlino West (o East?): l’altoparlante distorce.  Sono stordito e temo di non aver capito bene. Mi affaccio alla porta e sento gridare: ECCOLO!!! ECCOLO!!!

Sono gli “Occhi Dolci”! Amici cari! Grandi abbracci. Siamo di nuovo sette (ma senza il…per sette)

Da questo momento passeremo sette giorni e sette notti dormendo in tutto 16 ore.

Pernottiamo in una casa occupata nel quartiere turco: dalla nostra finestra si vede oltre il muro. Luci fioche e silenzio, traffico rarefatto, colori sbiaditi. Chissà se in tanta tristezza c’è almeno una visione ecologica della vita, dei consumi, dell’ambiente. Pessimismo della ragione: non crediamo.

Di qua la città è luccicante e puttana. La vita urbana è colma di distrazioni e tentazioni: un immenso paese dei balocchi piazzata in faccia all’altra metà, sdentata e scolorita, con le calze di nylon slabbrate.

La notte e il giorno si rincorrono e il clamore non si placa mai. Girano al mattino i fantasmi della notte, storditi dall’alcool e si trascinano nella luce come i ciechi di Bosch, passando tra gli impiegati e gli addetti a qualche pur necessaria mansione amministrativa. I lavoratori diurni non ci fanno neppure caso.

Di notte una popolazione variegata rimbalza tra un locale e una discoteca, tra ritmi in stile punk e musica tardo rock.

Noi mangiamo nei ristoranti dei quartieri poveri: dai turchi e dai  greci; bighelloniamo tra un parco e una piazza in festa, giriamo per il mercato delle pulci e i grandi parchi dove “lavorano” tanti italiani in dorato esilio. La sera andiamo all’Osteria “Numero Uno”. Ci facciamo l’alba regolarmente e Antonio, un sardo che la gestisce, ci chiede se vogliamo restare qui a lavorare tutti con lui perché con noi dentro… il locale è frizzantissimo.

Una sera regaliamo a tutti gli avventori il disegno delle farfalle che “conquistano la città” e una scatoletta di pastelli. Un’altra sera facciamo un’inchiesta sulla “Berlino selvaggia”. Nel paese di Lucignolo noi siamo grandi animatori.

Ma è quasi sin troppo facile per noi fare gli zuzzerelloni a Berlino. Tutto scorre tra birre e intorti, musiche e sguardi un po’ lucidi e un po’ persi.

L’alba, come un annuncio di aumentato ritardo, si prolunga per ore e sta appoggiata ad una luce grigia, tanto nebbiosa da sembrare soffice; una specie di anestesia ovattata e umida che cerca lo stacco, la svolta.

L’abbiamo attesa una mattina alla Porta di Brandeburgo e lì la storia sembrava alitasse ancora  pesantemente a causa della cattiva digestione. Poi una improvvisa sfilata di mimi sgualciti e di ragazze in calzamaglia ha alleggerito i pensieri e sollevato l’ultimo strato grigio dal cielo e dall’anima.

E i Grunen? Mai visti. Mai cercati. Noi abbiamo continuato a fare gli “ecologisti metropolitani” e loro avranno senz’altro avuto una missione da compiere…

Al ritorno abbiamo attraversato la lunga bretella autostradale in piena Germania Est.

Diluviava.

Una pattuglia di Polizia ci ha fermati: eravamo gli unici a transitare in un paesaggio desolante e penosissimo. Loro, con delle facce smunte da minatori, privi della luce minima di un sorriso, cercavano i nostri soldi. Dicevano gesticolando che andavamo troppo forte, oltre il limite di velocità piazzato ad intermittenza. Noi facevamo finta di non capire e lasciavamo gli agenti inzupparsi sotto l’acqua torrenziale. Hanno voluto 60 marchi, che gli venisse un colpo: erano i soldi per pranzare!

Abbiamo visto, più avanti, una specie di stazione con “punto ristoro”. C’era un tavolo con una tovaglia di plastica, una vetrina vuota con dentro un solo piatto e sopra una frittata di età avanzata. Anzi decrepita.

Per fortuna, amici cari, che ci siamo risparmiati il “socialismo reale”. Torniamo a Bologna di corsa, come suol dirsi, stanchi ma felici.

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