Dalla radio alla RAI (Occhi Dolci allo sbaraglio)

di Gabriele Giunchi

Abbiamo fatto i primi vagiti a Radio Città, in Via Masi 2. Era ‘na sera ‘e maggio del 1982 ed eravamo emozionati. Alla  fine della nostra “prima”, Franco chiese di dedicare “Sapore di sale” alla moglie Carla. Era tutto “fatto in casa”, come le tagliatelle e ci veniva tutto bene.

Per noi gli studi, i microfoni, l’amico che ci metteva gli stacchi musicali, le luci, le atmosfere fumose costituivano una seconda casa, un luogo caldo e confortevole.

La nostra trasmissione da sperimentale divenne permanente e prese un titolo: Quel comune senso del pudore: la mela e il serpente…

Eravamo molto seguiti, sebbene le nostre trasmissioni fossero spesso demenziali. Ne fanno fede le decine di lettere che ricevevamo.

Poi, a seguito degli eventi  prodotti dalla nostra fervida fantasia, ci chiamò “Mamma Rai”.

Il primo fu Beniamino Placido che ospitava un ciclo di trasmissioni dal titolo “Film Dossier”. Era la prima puntata della serie. Si proiettava il film “Un sacco bello”  di Carlo Verdone. Poi gli ospiti avrebbero discusso, prendendo spunto dalla pellicola, dei cambiamenti prodotti dagli anni nel linguaggio giovanile. Bene. Andiamo io e Franco, ci facciamo una canna ed entriamo nella sede Rai di Milano. Ci lavorava un sacco di gente. Incontriamo Beniamino Placido e ci presentiamo.

“Siamo pronti a parlare mezz’ora”,  gli diciamo. Lui ci risponde che forse potremo parlare mezzo minuto. Trattiamo per avere almeno tre minuti: uno e mezzo a testa. Ride.

Entriamo in studio e scopriamo che sotto i cuscini ci sono i nomi degli ospiti. Sul divano, in alto, ci stanno quelli “d’onore”. Verdone, Bevilacqua, la contessina Visconti della Rovere, la “Figlia” (Chi sarà?).

Poi sotto, disposti a raggio, un metallaro, un bersagliere in libano, un pacifista, noi occhi dolci, un vigile con il master, una coppia di arancioni, un macrobiotico, ecc. Scopriamo che la “Figlia” fa di cognome Craxi: la “intortiamo” in sala proiezioni assieme alla contessina che è qui per parlare del gran ballo di beneficenza. Mondi lontani come galassie…

Si parte. Quando tocca a noi diciamo chi eravamo (ex li L.C. Non pentiti), chi siamo e cosa vogliamo fare (L’agenzia di serenate). Riceviamo telefonate che non ci vengono passate. Lo scopriamo più tardi, alla cena offerta dalla rai, dalle ragazze del centralino: “ne avete ricevute più di tutti”. Ci divertiamo e facciamo venire l’alba.

Poi ci chiama RAI 2. Il Guardiano del  Faro. Portiamo anche i musicisti e parliamo di serenate.

Eccoci quindi da Raffaella Carrà, di nuovo sul primo. Wow! Passiamo la notte di vigilia a gozzovigliare, bere e fumare con Ermete Realacci e Chicco Testa. Ci presentiamo più vispi che lucidi. Stiamo tutti su un unico divano e la Carrà sta in mezzo. La frastorniamo. Ad un certo punto dice. “Mi sento in stereo” . Le parliamo di serenate, dell’editto del faraone Amenhemet I, le annunciamo l’arrivo dell’Uccello Azzurro. Poi il nostro quartetto le intona una serenata…un vortice.

Più tardi Boncompagni la sgriderà. Lo sentiamo brontolare mentre scendiamo in sala mensa: “Hai fatto parlare un quarto d’ora gli Occhi Dolci e Anna Proclemer si è lamentata per non aver potuto fare altrettanto”… Che stesse zitto, lui, che in quella puntata fece cantare un brano alla figlia, reduce da Sanremo-giovani. Un disastro.

Ora ci vogliono tutti e ci chiama anche la concorrenza. Andiamo da Rete4, in un programma  che è una specie di gara di bocciofila fatta  a misura di schermo: si sfidano due paesi ospiti, uno del nord e uno del sud. Palinsesto da delirio, cultura sottozero. Dirige Claudio Lippi che sembra un vigile urbano, come look e come forma/pensiero. Ve la racconto bene perché è propedeutico alla comprensione del  mondo di plastica e di idiozia che ci tocca subire, volenti o nolenti.

Appena arrivati ci chiedono di cambiarci d’abito e di indossare giacche e pantaloni orrendi: colori verde pisello abbinati a gialli catarinfrangenti… Li mandiamo a quel paese. Ci riprovano proponendoci cravatte ridicole. Ci giriamo dall’altra parte.

Intanto un mesto corteo di disgraziati si fa vestire nei modi più appariscenti e volgari. Sono borgatari e disoccupati che per 50.000 lire fanno le comparse. Le ragazze più giovani avranno calze a rete, minigonne e giacchettine scollate e saranno disposte in bella vista.

Entriamo in studio. Nell’anticamera c’è un tavolo pieno di cornetti e barattoli di coca cola. Ci avviciniamo ed ecco arriva una guardia giurata sbraitante: “Che fate, aho! Quante vorte ve l’ho da ridire che se magna dopo! Ve fate sempre compatì…”

Lo mandiamo nello stesso paese di cui sopra.

Intanto, dentro, le registrazioni sono cominciate. Un addetto gira per la sala con dei cartelli: APPLAUSI, GRIDA A FAVORE, GRIDA CONTRO.

“Forza applaudite, in tutto dieci minuti. Così possiamo farcele bastare per tutta la trasmissione. Poi non applaudite più! Intesi?”

Applaudire un quarto d’ora senza senso è una fatica. Una pena.

Poi comincia la trasmissione: una pena penosa.

Ci chiamano. Noi ci presentiamo con Danilo e Luca: due musicisti e mimi di alta qualità. Suonano la “Vie en rose” e cospargono di petali la scena. La platea è muta, come da comando.

Tocca a noi. Rispondiamo male alle domande cretine e facciamo diventare rosso il conduttore, ci schieriamo col paese del sud nella finta gara in corso, siamo indisciplinati e irriverenti e scateniamo un applauso spontaneo e liberatorio.

Saremo ovviamente segati e censurati.

Meglio così, eravamo davvero fuori posto in quella specie di lager del cattivo gusto, dove tutto è maschera e finzione e le persone vive sono costrette ad umiliazioni ed offese, per un cornetto e un minuto di visibilità.

Ma chi guarda la televisione da casa dovrebbe sapere quanto schifo e quanta miseria ci sono dietro le quinte. Noi lo raccontiamo a tutti, dai microfoni della nostra cara Radio. Piccolo mondo nostro.

I nostri passaggi sugli schermi hanno prodotto due effetti. Il primo, cui siamo restati indifferenti, è stato il groviglio di maldicenze che in genere fa da scia ad ogni “notorietà” e si mette in conto come un raffreddore d’inverno. (“Fanno i soldi con le serenate, sfruttando i ragazzi che suonano…chissà quanto guadagnano ad andare in certe trasmissioni…sono artisti da strapazzo, non si capisce perché vengano invitati”, ecc).

Il secondo, ben più importante, è che lo schermo arriva ovunque e dunque anche nelle prigioni. Ebbene abbiamo ricevuto decine di lettere di detenute cui abbiamo dato un leggero sollievo con le nostre parole e la descrizione delle nostre iniziative..

Per questo abbiamo fatto il possibile, chiedendo a destra e a manca, per avere l’autorizzazione a donare una serenata alle ragazze e alle donne che vivono momentaneamente dietro dei cancelli.

Ne abbiamo parlato nei convegni, lo abbiamo chiesto a deputati conosciuti perché inoltrassero la domanda, ma il nostro gesto di pace si è arenato nelle paludi della burocrazia e nel grigiore delle anime perse. Amen.

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